Consulenze su misura
Quando mentire è un arte: la storia insegna
Curiosità
Con cautela, in punta di penna, vi propongo un tema universale, oggi poco trattato forse perché la menzogna è diventata, quasi, una regola di vita. La pratica della bugia, antica come il cucco, fu oggetto di un trattatello scritto nientemeno che da Sant’Agostino.
Se il retore africano, filosofo immenso e Santo, affrontò l’argomento del mendacio per difendere l’ortodossia cattolica che condanna la menzogna e sottolineare all’autentico cristiano il disvalore del comportamento bugiardo, io, che non ho alcuna conoscenza in materia pastorale, mi limito con toni leggeri, a stabilire una correlazione tra bugia e diritto. L’accostamento al Santo filosofo è, ovviamente, provocatorio. Se sotto il profilo etico la bugia detta per scherzo non è da ritenersi una bugia vera, essendo palese dal tono e dall’esperienza di chi la pronuncia la totale mancanza di volontà di ingannare, per i giuristi vi è un’interpretazione abbastanza elastica del concetto di bugia, che non si può, quindi, negare che vi possa essere giusta corrispondenza tra Etica e Diritto.
Se un tapino dice una cosa diversa dalla realtà per un piccolo tornaconto personale senza avere l’intenzione di fare male al suo interlocutore, difficilmente sarà punito, così come risulterà esente da sanzioni il comportamento di chi mente per un nobile fine, quale, ad esempio, quello di salvare una vita o evitare una situazione pericolosa. Non è il caso di parlare di “bugie oneste”, né di stimolare a dire parole che alterino il vero: sarebbe uno scandalo soprattutto per i bambini che, per natura, sono già disposti naturalmente a non dire la verità: si deve però, a beneficio di chi intende essere in regola con la legge, oltre che con la propria coscienza, sottolineare che la bugia ti può costar cara – e perfino farti rischiare la galera - se, mentendo e quindi alterando la verità, cadi nell’ipotesi di reati: falsa testimonianza, diffamazione, calunnia, sono le ipotesi delittuose che pericolosamente lambiscono i bengardi.
In pratica, se hai intenzione, mentendo, di ingannare il tuo prossimo, amico, parente, vicino, astieniti dalla menzogna. Eviterai il rischio di finire in mano a giudici e avvocati e, soprattutto, otterrai con pieno diritto di essere annoverato nella vasta schiera dei buoni, che da sempre si contrappongono ai cattivi e che, proprio per la loro bontà, “non mentono mai”. Lo dice Sant’Agostino e io sottoscrivo.
I 10 Comandamenti in chiave legale
Vi propongo un decalogo di "comandamenti" che potrete leggere uno per uno, arrivando, se siete muniti di pazienza, fino all’ultimo.
Comandamenti: Volete saperne di più sulla specifica attività di un avvocato penalista e dei soggetti con cui “lavora”? Ve ne offro una sintesi, richiamandomi ai 10 Comandamenti, che ho rivisitato, per così dire al contrario, scherzosamente, sull’onda del ricordo del mitico Charlton Heston, attore americano recentemente scomparso.
Un ammiccante manualetto di qualche anno fa mi ha dato lo spunto per lo scherzo che vi propongo.
I latinismi in ambito legale
Ripropongo, aggiornandole, le curiosità già pubblicate, augurandomi che qualcuno che ha conoscenza del latino non mi abbia mandato al diavolo per il fatto di aver effettuato qualche errore, del quale veniam postulo (chiedo scusa).
E per completezza, vi coinvolgo in qualche espressione di gergo.
Il Processo di Franz Kafka
“Qualcuno doveva aver diffidato di Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato”. Inizia così Il Processo, l’opera più nota di Franz Kafka, un classico della letteratura mondiale, in cui la vicenda paradossale di K. si snoda su uno scenario allucinante, popolato da figure allusive, inquietanti, singolarmente “vicine” a quelle in cui ci si imbatte nei moderni tribunali.
Ve ne propongo le fasi essenziali per non privarvi del piacere, e dell’angoscia, della lettura di un testo che non può essere assente dagli scaffali dei frequentatori, a vario titolo, dei tribunali.
Dopo essersi presentato alla prima udienza del processo senza conoscere l’accusa a suo carico ed essersi augurato che la vicenda si concludesse “rapidamente”, K. si ritrova affiancato da due signori in redingote “pallidi e grassi con due cilindri in testa apparentemente fissi” che lo cingono e gli prendono le mani “con una presa regolare, esperta ed irresistibile”.
Il tapino, che ha scambiato gli individui per teatranti, si trova di fatto bello e impacchettato, privo della giacca, del gilet e della camicia.
È un uomo seminudo che, ignaro, si reca al suo patibolo.
Tra “nauseanti cortesie” K. viene posato, vicino alla parete di una casa, alla pietra sulla quale è adagiata la sua testa, in una posizione “molto innaturale e sconvolgente”.
K. vede roteare sulla testa, passato dai due di mano in mano, un lungo coltello da macellaio, sottile affilato, a doppio taglio.
Dovrebbe afferrare il coltello da sé “e conficcarselo da solo”, ma non lo fa, anzi volta il collo ancora libero, osservando quel che lo circonda e fissando il suo sguardo sull’ultimo piano della casa confinante con la casa di pietra.
Improvvisamente si aprono le imposte di una finestra e un uomo apparentemente debole e sottile si sporge con impeto in avanti tendendo le braccia ancora più fuori.
K. non sa chi sia, un amico, un buon uomo, uno che vuole aiutare. Gli interrogativi finali, per lui che vuole vivere, si agitano convulsamente, drammaticamente.
Ma dov’è l’altro tribunale al quale non è mai arrivato!
Le domande sono destinate a rimanere senza risposta.
Alza le mani, il povero cristo, allargando tutte le dita.
Alla sua gola si stringono le mani di uno dei due energumeni, mentre l’altro gli “infila il coltello nel cuore rigirandolo poi due volte”. È la fine: K. muore come un cane, il suo destino si è compiuto. Il suo caso, che si sarebbe dovuto chiudere in una piccola udienza, è rimasto irrisolto. Vergogna!
Il processo Kafkiano è di viva attualità, ai nostri “ingiusti” giorni.
Il rapporto tra giustizia e media
È una problematica che diventa sempre più attuale con l’impazzare delle cronache giudiziarie illustrate dai programmi televisivi diffusi sulle centinaia di emittenti estese sul territorio nazionale.
Le mie annotazioni che seguono sono effettuate sulla scorta di una lunga esperienza professionale di avvocato e dell’attività di giornalista pubblicista con la quale, per diletto, mi sono cimentato per tenere calda la penna e dritte le antenne puntate sulla cronaca.
È inutile negarlo: il processo in TV è sempre più di moda. Le porte, spesso chiuse ai normali uditori che si assiepano dietro le transenne delimitanti gli spazi riservati agli avvocati e al pubblico, sono aperte alle telecamere e alle dirette seguono registrazioni e filmati ossessivamente riproposti dai TG con monotonia.
Il caso della morte della “piccola Sarah”, di “zio Michele” e di “Sabrina” è l’esemplificazione, non ultima, di un disturbante, ripetitivo, bombardamento.
Dal suo scranno, talvolta leggermente più alto rispetto a quello degli avvocati (in attesa che la riforma delle procedura penale allinei pariteticamente, anche sul piano logistico le parti processuali) il pubblico ministero fa scena a parte, concedendo, forse inconsapevolmente, ampi spazi alla vanità dell’eloquio a discapito della sintesi.
Gli avvocati, anch’essi sciorinanti toghe infioccate, non sono inferiori al PM e le arringhe si protraggono più o meno fluide, con l’occhio sempre attento all’analogo organo telematico, l’inquieto “occhio” delle telecamere.
Le sempre più sofisticate tecniche audiovisive nel procedimento penale non consentono la sopravvivenza di difensori sonnacchiosi o balbuzienti: oltre agli approfondimenti giuridici attraverso riviste e internet, l’avvocato moderno deve fare corsi di gestualità e di dizione!
È obbligatoria la frequenza di “actor’s studios” e l’acquisto di manuali di dizione, il tutto con addebito ai clienti in parcella.
Restano in circolazione pochi “esemplari alla Di Pietro”, sia nel suo ruolo – troppo osannato- di PM che in quello, fortunatamente breve, di avvocato: l’ex toga ha purtroppo trovato il suo ennesimo palcoscenico in Parlamento e, ovviamente, negli studi televisivi la fa da padrona nel suo latinorum e italiano da barzelletta. Con buona pace di chi, come me, ama la grammatica e la sintassi e le sceneggiate le ha viste sul palcoscenico del “Margherita” (uno “storico” teatro napoletano che non c’è più).
Nelle aule l’infallibile telecamera fissa gli sguardi spauriti, tremebondi o sfrontati degli imputati, quelli incerti e talvolta imbarazzati degli imputati, focalizzandosi, con primi piani, su quelli del giudice monocratico o del presidente di turno.
I giudici popolari che compongono la Corte d’Assise non sono insensibili al richiamo del cavo televisivo: normalmente appaiono seri, anzi compunti, apparentemente impenetrabili, impercettibilmente vanitosi. Lo sfolgorio di luci è proporzionale al consumo di energia elettrica (tanto paga sempre Pantalone!).
I cavi elettrici sono lacciuoli pericolosi per avvocati, giudici, cancellieri, giornalisti e uditori di ogni tipo. Se il conflitto tra le parti è vivace, dialettico, drammatico, tanto più aumenta la resa dello spettacolo. I fatti storici, che dovrebbero tramutarsi in una corretta realtà processuale, si inquinano e l’interpretazione dei protagonisti del processo si concentra sul modo di apparire.
L’imputato è determinato più a guadagnarsi il consenso del pubblico che il giudizio favorevole del Tribunale.
Non sempre la severità del presidente, l’autorità che autorevolmente deve presiedere a una corretta gestione della fase processuale, riesce a ricondurre il clima spettacolare che si determina innaturalmente in quello, composto se non austero, che correttamente dovrebbe contraddistinguere gli scontri, tra accusa e difesa.
E il pubblico gode. Da casa, comodamente sprofondati in poltrona o seduti a tavola, i teleutentidipendenti si improvvisano in censori e scagliano anatemi o “urrah” da stadio epidermicamente adesivi, rischiando di strozzarsi o di rompere i timpani di chi deve subire la prepotenza del vicino e non può esercitare la libertà del telecomando.
La visione di nere toghe è paradossalmente vittoriosa rispetto alle ridotte mises di ballerine e show girls e perfino i pantaloncini e le maglie a strisce di pedatori calcistici registrano un’“audience” più scarsa rispetto a quella degli attori forensi! La televisione nelle aule dei Tribunali determina equivoche atmosfere e non rende un servigio alla Giustizia.
Chi non è d’accordo con tale tesi, provi a ritrovarsi dietro le sbarre puntato dalle telecamere!
Al di là delle valutazioni estetiche, certamente non può dirsi, in conclusione, che l’informazione televisiva sbattuta in faccia impietosamente con ossessiva ripetitività, giovi ai succubi teleutenti.

N.B. Io, che i processi televisivi non li guardo, sono certo che non sarò mai immortalato dalla TV nella mia attività difensiva: amo, infatti, altre platee e rischierei, inoltre, di mostrare un profilo ventrale alla Hitchcock che, più che produttivo di share, stimolerebbe commenti maligni e, per me, indigeribili!
Se ho suscitato la vostra curiosità, sarò lieto. Altrimenti me ne farò una ragione.