Curiosità

Diritto di famiglia: i vostri consulenti di fiducia a Como

Con cautela, in punta di penna, vi propongo un tema universale, oggi poco trattato forse perché la menzogna è diventata (quasi) una regola di vita. La pratica della bugia, antica come il cucco, fu oggetto di un trattatello scritto nientemeno che da Sant’Agostino.


Se il retore africano, filosofo immenso e Santo, affrontò l’argomento del mendacio per difendere l’ortodossia cattolica che condanna la menzogna e sottolineare all’autentico cristiano il disvalore del comportamento bugiardo, io, che non ho alcuna conoscenza in materia pastorale, mi limito con toni leggeri, a stabilire una correlazione tra bugia e diritto. 


L’accostamento al Santo filosofo è, ovviamente, provocatorio. Se sotto il profilo etico la bugia detta per scherzo non è da ritenersi una bugia vera, essendo palese dal tono e dall’esperienza di chi la pronuncia la totale mancanza di volontà di ingannare, per i giuristi vi è un’interpretazione abbastanza elastica del concetto di bugia, che non si può, quindi, negare che vi possa essere giusta corrispondenza tra Etica e Diritto.


Se un tapino dice una cosa diversa dalla realtà per un piccolo tornaconto personale senza avere l’intenzione di fare male al suo interlocutore, difficilmente sarà punito, così come risulterà esente da sanzioni il comportamento di chi mente per un nobile fine, quale, ad esempio, quello di salvare una vita o evitare una situazione pericolosa.

Non è il caso di parlare di “bugie oneste”, né di stimolare a dire parole che alterino il vero: sarebbe uno scandalo soprattutto per i bambini che, per natura, sono già disposti naturalmente a non dire la verità: si deve però, a beneficio di chi intende essere in regola con la legge, oltre che con la propria coscienza, sottolineare che la bugia ti può costar cara – e perfino farti rischiare la galera - se, mentendo e quindi alterando la verità, cadi nell’ipotesi di reati: falsa testimonianza, diffamazione, calunnia, sono le ipotesi delittuose che pericolosamente lambiscono i bengardi. 

In pratica, se hai intenzione, mentendo, di ingannare il tuo prossimo (amico, parente, vicino), astieniti dalla menzogna. Eviterai il rischio di finire in mano a giudici e avvocati e, soprattutto, otterrai con pieno diritto di essere annoverato nella vasta schiera dei buoni, che da sempre si contrappongono ai cattivi e che, proprio per la loro bontà, “non mentono mai”. Lo dice Sant’Agostino e io sottoscrivo.
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I 10 Comandamenti in chiave legale

Vi propongo un decalogo di "comandamenti" che potrete leggere uno per uno, arrivando, se siete muniti di pazienza, fino all’ultimo.


Comandamenti: Volete saperne di più sulla specifica attività di un avvocato penalista e dei soggetti con cui “lavora”? Ve ne offro una sintesi, richiamandomi ai 10 Comandamenti, che ho rivisitato, per così dire al contrario, scherzosamente, sull’onda del ricordo del mitico Charlton Heston, attore americano recentemente scomparso.


Un ammiccante manualetto di qualche anno fa mi ha dato lo spunto per lo scherzo che vi propongo.

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  • I - Non avrai altro Dio fuori di me

    Per il delinquente, soprattutto per quello abituale, l’unico “dio” è il delitto, nelle varie modalità con cui può essere perpetrato.

  • II - Non nominare il nome di Dio invano

    Spesso, quasi sempre, chi delinque giura sulla sua innocenza, chiamando a testimone Dio, mostrandosi poco rispettoso della propria fede e temerario.

  • III - Ricordati di santificare le feste

    Per il delinquente non ci sono festività, per alcuni, anzi, i giorni festivi – comandati e non – sono utilizzati per esaltare le proprie specialità.

  • IV - Onora il padre e la madre

    Il comandamento, che si collega al diritto di famiglia, regolato dai diritti e dai doveri dei componenti in un nucleo familiare, è oggi ripetutamente trasgredito. 


    È nell’ambito familiare che si consumano i delitti più atroci trasversalmente. Indignano soprattutto i delitti nei confronti dei figli, che non sono sempre “piezz e core”, né “scarrafune” belli alle proprie mamme, ma in molti casi diventano strumenti di ritorsione per corna fatte e subite o per questioni spicciole di soldi. 

  • V - Non ammazzare

    Sul tema le varianti possono essere infinite. Si va dall’incidente stradale mortale, verificatosi per colpa e imprudenza, ai delitti che si commettono, con coscienza e volontà, con le più disparate armi e tecniche tanto raffinate, quanto perverse.


    La soppressione di una vita umana, fin dal suo concepimento, è atto innaturale che l’ordinamento giuridico ha esaminato nelle sue complesse sfaccettature, prevedendo uno spettro di pene differenziate a seconda della gravità del delitto.


    All’avvocato difensore è affidata la difesa tecnica del reo, ma anche la vittima, troppo spesso trascurata, ha diritto di essere difesa adeguatamente tutelati.

    Per avere una dettagliata panoramica della vastissima fauna degli assassini – e delle vittime -, basta accendere la TV.


    Alla seguente domanda: “Come può un avvocato difendere chi ha impietosamente stroncato una vita?” il professionista designato alla difesa non può che rispondere richiamandosi ai principi generali della civiltà. 


    Ogni uomo, anche il più disumanato, ha diritto a essere difeso e la difesa è un obbligo al quale l’avvocato non può, né deve, sottrarsi.


    Vi è ovviamente da considerarsi che l’attività professionale dell’avvocato, come quella del medico, del biologo e di altri, presuppone l’esistenza di sensibilità, coscienza e responsabilità. L’advocatus, il chiamato alla difesa, deve rispondere, prima che al cliente, alla sua coscienza. Se ne ha una...

  • VI - Non fornicare

    Le storie di fornicazione, parola antica che richiama immagini di alcove e di giacigli non sempre olezzanti, sono produttive di infiniti reati.

    I peccati della carne spesso presumono, come rovescio della medaglia, sofferenze dannose che vanificano il piacere.


    Il fornicatore è tendenzialmente portato a giustificarsi e non si rende conto della lesività della sua condotta. Non sempre le pene risultano proporzionate all’entità dei fatti. Ma tale osservanza vale anche per altre categorie di trasgressori.


    Ipotizzare, in concreto, le varie fattispecie di fornicazione, mi imporrebbe di descrivere oscenità e inimmaginabili panorami, che preferibilmente all’archivio.

  • VII - Non rubare

    Che dire? Chi non ha rubato, scagli la prima pietra? No, di certo.

    I ladri sono stati tra i primi delinquenti a riempire le carceri. Ci sono mille tipologie di ladri, da quelli che quotidianamente tessono equivoche trame politiche nell’interesse – proclamato a gran voce – dei cittadini, a quelli di più bassa lega, cosiddetti ladri comuni.


    Dei ladri il protettore è San Ranieri, uno poco conosciuto, un santo di serie B, dalla cui storia si apprende che si vide portar via un dito dal salumiere a cui aveva cercato con destrezza di sottrarre una forma di cacio.


    Se a San Ranieri è da riservarsi la comprensione di chi ruba, ai giudici tocca ogni giorno l’onere di dare una pena giusta, commisurata alla gravità del “maltolto”. All’avvocato non resta che districarsi tra attenuanti, aggravanti e via di seguito, per evitare che il reo paghi più dazio del dovuto.


    Con i ladri si tende purtroppo a essere tolleranti, ma tale benevolenza non deve essere usata perché, partendo dalle attività furtive, si fa spesso carriera, attraverso una escalation progressiva e devastante. Pene, quindi, giuste e, come per altri delitti più “pesanti”, da scontarsi in tempo reale.

  • VIII - Non dire falsa testimonianza

    La verità è scomoda e pochi la perseguono.


    Nel reato specifico molti incorrono, non stupidamente, omettendo di considerare che, oltre a privarsi, mentendo, della ricompensa che Dio riserva ai giusti, finiscono spesso per beccarsi pene: questo delitto, dissacratore, è particolarmente indigesto.


    E capita spesso che chi compare quale teste, passa a interpretare – per avere mentito – nel ruolo di imputato, che gli dà il diritto di essere assistito da un avvocato.

  • IX - Non desiderare la donna d'altri

    Che dire al riguardo? Dalle mille storie che riproducono triangoli equilateri e non, scaturiscono dolori per gli autori attivi del reato e, ciò che è più grave, per i soggetti passivi dei “giochi pericolosi" degli attentatori delle altrui.

  • X - Non desiderare la roba d'altri

    La trasgressione a questo principio, che affonda nella notte dei tempi, dà la stura a una serie di reati, in costante evoluzione. 


    L’avvocato di fronte a un cliente indisponibile a redimersi, non può che ridurre il danno, evitandogli una pena esemplare al pregiudizio del defraudato. 


    L'interpretazione dei Comandamenti rapportata ai codici, risulterà, ai più, opinabile o indigesta. L’ho messo nel conto: l’elaborazione, scherzosa, non può che essere suscettibile di migliorie. Se del caso, ritornerà sulle “tavole”!


I latinismi in ambito legale

Ripropongo, aggiornandole, le curiosità già pubblicate, augurandomi che qualcuno che ha conoscenza del latino non mi abbia mandato al diavolo per il fatto di aver effettuato qualche errore, del quale veniam postulo (chiedo scusa).



E per completezza, vi coinvolgo in qualche espressione di gergo.

  • Il "latinorum"

    Alcuni avvocati e magistrati hanno il vizietto di parlare in latino, anzi, di infiorare rispettivamente le arringhe e le sentenze emanate al termine di una causa, civile o penale che sia, con espressioni in latino. 


    E non è un caso se si considera che il nostro attuale diritto è frutto dell’ordinamento giuridico dell’antica Roma, il cui nucleo iniziale si era consolidato nel Latium vetus (Lazio antico). Io parlo in italiano corretto rispettoso della grammatica e della sintassi e in … napoletano!


    Anche oggi Roma, condensato (purissimo?) di civiltà, rimane la caput mundi per la bellezza e il fascino delle sue strutture architettoniche, in alcune delle quali si concentra l’attività politica e giuridica: si consideri il “Palazzaccio” dove imperano i vecchi soloni, i giudici della Suprema Corte di Cassazione, in pratica magistrati non più in tenera età preposti a cassare sentenze ingiuste.


    L’attuale consistenza della fauna politica che attecchisce periodicamente alla Camera e al Senato, con la quale il Potere Giudiziario è in perenne lotta, personalizzata in particolare contro il demone di turno, fa rimpiangere a molti il Senatus Populus Que Romanus, oggi ribattezzato con la chiacchierata e riciclata sigla di S.P.Q.R. (sono porci questi romani)!


    Non vi sono più nella Città Eterna lotte fra patrizi e plebei, né si trovano i clientes che tributavano onori e servizi alla gens patrizia e al patronus di turno. Sono cambiate le regole e i linguaggi: in peggio. Se nelle caratteristiche osterie e nelle strade della città si parla ancora (fino a quando?) il romanesco, nelle aule del Tribunale si registra l’assenza di autentici Ciceroni ed è sempre più difficile ascoltare orazioni di pregio.


    La professione dell’advocatus è sempre più difficile e, pur se è ineliminabile la sua funzione tecnica del difensore che deve contrapporsi all’Accusa e sostenere il contraddittorio con pubblici ministeri e giudici, il ruolo dell’avvocatura rischia di squalificarsi sempre più, riducendosi il tasso di professionalità e montando il potere dei magistrati.


    I grandi avvocati non illuminano più i fori e gli allievi dei grandi maestri rischiano di illividirsi in un linguaggio di gergo sempre più incomprensibile.

    E il “latinorum” – il latino maccheronicamente tradotto - come si inserisce in questo contesto?

    Non è, ovviamente, agevole dare una risposta che soddisfi tutti. È certo che i cultori e difensori della più diffusa tra le lingue classiche siano tendenzialmente portati a nobilitare parole e scritti impreziosendoli con dotte citazioni, mentre i tecnocrati del diritto si rifugiano in elucubrazioni tecniche, non sempre di agevole intelligibilità.

    Io appartengo alla prima categoria e, seppure con gli anni ho dato un calcio ai bizantinismi preferendo il parlare chiaro e schietto, non disdegno di fare ricorso alla lingua dei miei avi.


    Non sono mai stato, né lo sono, un advocatus diaboli nel senso di “avvocato del diavolo”, ovvero di “difensore dei casi disperati”, né mi sono ridotto a interpretare il ruolo di difensore delle cause perse, ma mi piace attingere, non a piene mani, a principi e massime usate dai “colleghi” nell’antica Roma, dove le prestazioni difensive erano di diversa natura e qualità.


    Chi vuole cimentarsi a sperimentare modi di dire e locuzioni forensi di un’altra civiltà deve curarsi almeno di non stravolgere le desinenze e di rispettare grammaticalmente e sintatticamente, le allocuzioni di cui intende fare uso. Non vi è nulla di più sgradevole di una citazione storpiata che è pari, per indegnità, solo a una arringa o a una requisitoria troppo prolissa.


    Sintesi tacitiana e ortodossia di forme e contenuti restano spesso una pura aspirazione.

    Si è purtroppo consolidata la regola di leggere atti giudiziari scritti in pessimo italiano con riferimenti in latino impropri e spesso risibili: le eccezioni sono confermative delle regole. Chi non ha dimestichezza con verbi, sostantivi e aggettivi, declinazioni e coniugazioni corrette, si astenga dal “latinorum”. Per una questione di buon gusto!


    E per esemplificare il concetto, ecco due sintetiche citazioni: intelligenti pauca (servono poche parole per chi vuole ed è in grado di capire) o, se preferite, est modus in rebus (ci vuole equilibrio nei fatti e nei comportamenti!). A beneficio di chi nell’orbe terracqueo degli avvocati e dei giudici non intende rinunciare alle citazioni preferite, ne estrapolo alcune fra le più note, riassumendole, alla rinfusa, in un quadro sinottico che ognuno potrà completare a proprio piacimento, curandosi ovviamente di trascrivere, almeno nel suo brogliaccio personale, una corretta traduzione nella nobile lingua di Dante, anch’essa, purtroppo, devastata da troppi!


    Chi non gradisce il mio commento, usi lo sbianchetto (calamus…sbiancante)!

  • Affectio maritalis

    Sentimento che lega (almeno dovrebbe) marito e moglie.


    Troppo spesso non dura per tutta la vita e quindi…separazioni e divorzi à gogo! A vantaggio di chi? Di pochi, non certo dei figli, sicuramente degli avvocati “matrimonialisti puri” che vedono abbondantemente esaudita la preghiera “dacci il nostro pane quotidiano”!

  • Ad impossibilia nemo tenetur

    Nessuno è obbligato a fare cose impossibili. Quelli che ci provano ottengono, di norma, disastrosi risultati. Chi ci riesce è un santo o un eroe!

  • Alibi

    È un avverbio di luogo che si traduce con “altrove”. Nel senso più diffuso lo invocano in tanti, spesso a sproposito. Nel linguaggio penalistico se ne avvale chi, sospettato di un delitto, cerca di dimostrare la sua innocenza, provando di essere “altrove” al momento del fatto. 


    Personalmente non ho mai invocato alibi, anche perché, fino a ora, non sono stato accusato di delitti (salvo quelli di attentare irreversibilmente alla mia vita con l’abuso di (ottimi) alimenti e (altrettanto ottime) libagioni (prandiali!).

  • Bigamia

    Parola che viene da lontano, dal greco. In Italia chi ha due mogli (o due mariti) commette un reato e l’autore rischia di beccarsi cinque anni di galera!

  • Cicero pro domo sua

    Letteralmente: Cicerone per la propria casa. Sostanzialmente: ognuno pensa ai fatti suoi!

  • Consilium

    Significa consiglio, parere. Li danno i giuristi, gli avvocati, i medici e altri professionisti, di norma, a pagamento (con qualche eccezione). 


    Nel diritto romano il termine indicava un collegio di consiglieri (tra i quali vi era il ‘praefectus praetorio’, una specie di primo ministro). Quindi con il termine si indicò un ‘consiglio dei ministri’ del quale si parla nella nostra costituzione. 


    E chi era il ‘magister officiorum’? questa figura pubblica rappresentava il direttore dei pubblici uffici (una specie di cancelliere). Vi risparmio altre cariche: i burocrati mi annoiano e... rompono. Presumo che siate della stessa idea.

  • Damnatio ad metalla

    Si tratta di lavori forzati per i quali non bisogna spendere molte parole. Tali tipi di lavoro dovrebbero essere ripristinati per alcuni rei, autori di delitti nefandi (infanticidio e altri).

  • Damnatio memoriae

    Significa condanna della memoria, cancellazione del ricordo. Nell’antica Roma il Senato puniva gli imperatori che avevano mal governato e che per le loro colpe non ricevevano onoranze funebri né monumenti alla memoria. Di essi non doveva restare neppure il ricordo. Di imperatori oggi non ce ne sono, ma la fauna dei cattivi governanti pubblici di esemplari ne conta a migliaia. Dimentichiamoli.

  • De minimis non curat praetor!

    Chi è importante non si occupa delle piccole cose.

    Il brocardo l’ho adattato alla mia persona, in maniera equivocamente scherzosa:

    “De minimis non curat magnus advocatus”, dove con magnus si può accennare alla grandezza o all’entità della mole (grossezza)!

  • De cuius

    È un’abbreviazione che ancora si usa nel linguaggio giuridico e che si riferisce al ‘defunto’, alla cui morte si apre la successione: ‘de cuius hereditate agitur’.


  • Fumus persecutionis

    Indizio di persecuzione. Molti, nel privato, si sentono vittime, cioè di essere oggetti di livide attenzioni.

  • Peculatus

    È il termine con cui si qualifica l’appropriazione del denaro pubblico. Alzi un dito chi ritiene che non sia un reato alla moda!

  • Summum ius, summa iniura

    La somma giustizia è somma ingiustizia.

    La massima è invocata da chi crede –non inopportunamente- che quando la legge si applica in modo troppo rigoroso non produce “giustizia”, ma ingiustizia.


    A chi, ritenendo di considerare specificamente le differenze oggettive che esistono tra i vari casi, si dimostra scettico di fronte alla giustizia esemplare, si contrappone chi, a proposito di leggi, predilige l’altra –più rigorosa- massima: dura lex, sed lex!

  • Vim vi repellere licet

    È lecito difendersi dalla violenza con la violenza.

    È un principio da leggersi e attuarsi con molto discernimento. A esso ricollega la scriminante della legittima difesa.


    Io personalmente a esso ricorro spesso. Anche fuori dal processo. Non posso sopportare i violenti e, quando me li trovo di fronte, ripago con la stessa moneta!

  • Salvis iuribus

    Fatti salvi gli altri diritti. Tale chiosa si oppone in calce agli atti giudiziari da chi preferisce l’espressione latina alla burocratica “osservanza” o ad anonimi saluti.

    E che siano fatti salvi, anche e soprattutto, i diritti di chi sarà arrivato a fondo pagina. Anche i vostri!

Il Processo di Franz Kafka

“Qualcuno doveva aver diffidato di Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato”.
Inizia così Il Processo, l’opera più nota di Franz Kafka, un classico della letteratura mondiale, in cui la vicenda paradossale di K. si snoda su uno scenario allucinante, popolato da figure allusive, inquietanti, singolarmente “vicine” a quelle in cui ci si imbatte nei moderni tribunali.

Ve ne propongo le fasi essenziali per non privarvi del piacere, e dell’angoscia, della lettura di un testo che non può essere assente dagli scaffali dei frequentatori, a vario titolo, dei tribunali.
Dopo essersi presentato alla prima udienza del processo senza conoscere l’accusa a suo carico ed essersi augurato che la vicenda si concludesse “rapidamente”, K. si ritrova affiancato da due signori in redingote “pallidi e grassi con due cilindri in testa apparentemente fissi” che lo cingono e gli prendono le mani “con una presa regolare, esperta ed irresistibile”.
Il tapino, che ha scambiato gli individui per teatranti, si trova di fatto bello e impacchettato, privo della giacca, del gilet e della camicia.

È un uomo seminudo che, ignaro, si reca al suo patibolo.
Tra “nauseanti cortesie” K. viene posato, vicino alla parete di una casa, alla pietra sulla quale è adagiata la sua testa, in una posizione “molto innaturale e sconvolgente”.
K. vede roteare sulla testa, passato dai due di mano in mano, un lungo coltello da macellaio, sottile affilato, a doppio taglio.
Dovrebbe afferrare il coltello da sé “e conficcarselo da solo”, ma non lo fa, anzi volta il collo ancora libero, osservando quel che lo circonda e fissando il suo sguardo sull’ultimo piano della casa confinante con la casa di pietra.
Improvvisamente si aprono le imposte di una finestra e un uomo apparentemente debole e sottile si sporge con impeto in avanti tendendo le braccia ancora più fuori.
K. non sa chi sia, un amico, un buon uomo, uno che vuole aiutare. Gli interrogativi finali, per lui che vuole vivere, si agitano convulsamente, drammaticamente.
Ma dov’è l’altro tribunale al quale non è mai arrivato!
Le domande sono destinate a rimanere senza risposta.
Alza le mani, il povero cristo, allargando tutte le dita.

Alla sua gola si stringono le mani di uno dei due energumeni, mentre l’altro gli “infila il coltello nel cuore rigirandolo poi due volte”. È la fine: K. muore come un cane, il suo destino si è compiuto. Il suo caso, che si sarebbe dovuto chiudere in una piccola udienza, è rimasto irrisolto. Vergogna!
Il processo Kafkiano è di viva attualità, ai nostri “ingiusti” giorni.

Il rapporto tra giustizia e media

È una problematica che diventa sempre più attuale con l’impazzare delle cronache giudiziarie illustrate dai programmi televisivi diffusi sulle centinaia di emittenti estese sul territorio nazionale. 

Le mie annotazioni che seguono sono effettuate sulla scorta di una lunga esperienza professionale di avvocato e dell’attività di giornalista pubblicista con la quale, per diletto, mi sono cimentato per tenere calda la penna e dritte le antenne puntate sulla cronaca.

È inutile negarlo: il processo in TV è sempre più di moda. Le porte, spesso chiuse ai normali uditori che si assiepano dietro le transenne delimitanti gli spazi riservati agli avvocati e al pubblico, sono aperte alle telecamere e alle dirette seguono registrazioni e filmati ossessivamente riproposti dai TG con monotonia.
Il caso della morte della “piccola Sarah”, di “zio Michele” e di “Sabrina” è l’esemplificazione, non ultima, di un disturbante, ripetitivo, bombardamento.

Dal suo scranno, talvolta leggermente più alto rispetto a quello degli avvocati (in attesa che la riforma delle procedura penale allinei pariteticamente, anche sul piano logistico le parti processuali) il pubblico ministero fa scena a parte, concedendo, forse inconsapevolmente, ampi spazi alla vanità dell’eloquio a discapito della sintesi.

Gli avvocati, anch’essi sciorinanti toghe infioccate, non sono inferiori al PM e le arringhe si protraggono più o meno fluide, con l’occhio sempre attento all’analogo organo telematico, l’inquieto “occhio” delle telecamere.
Le sempre più sofisticate tecniche audiovisive nel procedimento penale non consentono la sopravvivenza di difensori sonnacchiosi o balbuzienti: oltre agli approfondimenti giuridici attraverso riviste e internet, l’avvocato moderno deve fare corsi di gestualità e di dizione!
È obbligatoria la frequenza di “actor’s studios” e l’acquisto di manuali di dizione, il tutto con addebito ai clienti in parcella.

Restano in circolazione pochi “esemplari alla Di Pietro”, sia nel suo ruolo – troppo osannato- di PM che in quello, fortunatamente breve, di avvocato: l’ex toga ha purtroppo trovato il suo ennesimo palcoscenico in Parlamento e, ovviamente, negli studi televisivi la fa da padrona nel suo latinorum e italiano da barzelletta. Con buona pace di chi, come me, ama la grammatica e la sintassi e le sceneggiate le ha viste sul palcoscenico del “Margherita” (uno “storico” teatro napoletano che non c’è più).
Nelle aule l’infallibile telecamera fissa gli sguardi spauriti, tremebondi o sfrontati degli imputati, quelli incerti e talvolta imbarazzati degli imputati, focalizzandosi, con primi piani, su quelli del giudice monocratico o del presidente di turno.
I giudici popolari che compongono la Corte d’Assise non sono insensibili al richiamo del cavo televisivo: normalmente appaiono seri, anzi compunti, apparentemente impenetrabili, impercettibilmente vanitosi. Lo sfolgorio di luci è proporzionale al consumo di energia elettrica (tanto paga sempre Pantalone!).

I cavi elettrici sono lacciuoli pericolosi per avvocati, giudici, cancellieri, giornalisti e uditori di ogni tipo. Se il conflitto tra le parti è vivace, dialettico, drammatico, tanto più aumenta la resa dello spettacolo. I fatti storici, che dovrebbero tramutarsi in una corretta realtà processuale, si inquinano e l’interpretazione dei protagonisti del processo si concentra sul modo di apparire.
L’imputato è determinato più a guadagnarsi il consenso del pubblico che il giudizio favorevole del Tribunale.
Non sempre la severità del presidente, l’autorità che autorevolmente deve presiedere a una corretta gestione della fase processuale, riesce a ricondurre il clima spettacolare che si determina innaturalmente in quello, composto se non austero, che correttamente dovrebbe contraddistinguere gli scontri, tra accusa e difesa.

E il pubblico gode. Da casa, comodamente sprofondati in poltrona o seduti a tavola, i teleutentidipendenti si improvvisano in censori e scagliano anatemi o “urrah” da stadio epidermicamente adesivi, rischiando di strozzarsi o di rompere i timpani di chi deve subire la prepotenza del vicino e non può esercitare la libertà del telecomando.
La visione di nere toghe è paradossalmente vittoriosa rispetto alle ridotte mises di ballerine e show girls e perfino i pantaloncini e le maglie a strisce di pedatori calcistici registrano un’“audience” più scarsa rispetto a quella degli attori forensi! La televisione nelle aule dei Tribunali determina equivoche atmosfere e non rende un servigio alla Giustizia.
Chi non è d’accordo con tale tesi, provi a ritrovarsi dietro le sbarre puntato dalle telecamere! 

Al di là delle valutazioni estetiche, certamente non può dirsi, in conclusione, che l’informazione televisiva sbattuta in faccia impietosamente con ossessiva ripetitività, giovi ai succubi teleutenti.
N.B. Io, che i processi televisivi non li guardo, sono certo che non sarò mai immortalato dalla TV nella mia attività difensiva: amo, infatti, altre platee e rischierei, inoltre, di mostrare un profilo ventrale alla Hitchcock che, più che produttivo di share, stimolerebbe commenti maligni e, per me, indigeribili!

Se ho suscitato la vostra curiosità, sarò lieto. Altrimenti me ne farò una ragione.    

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